Ad Austin fra due settimane Lewis Hamilton può trasformare il primo match-ball ottenuto con la facile vittoria a Suzuka, conquistare il suo quinto Mondiale ed eguagliare Juan Manuel Fangio. Magari per la Ferrari sarebbe meglio che finisse così, che senso avrebbe prolungare l’agonia?
Il Gp del Giappone segna il punto più basso della stagione, il punto di non ritorno. Come dodici mesi fa, sempre a Oriente, si spengono le speranze di rimonta: ma se allora la ragione della disfatta era stata evidente (era venuta meno l’affidabilità nella volata finale del campionato) ora i motivi sono molto più complessi e le responsabilità distribuite.
Sebastian Vettel ha aggiunto un altro orrore alla sua, ormai lunga, collezione personale distruggendo una partenza fenomenale con un attacco scellerato su Max Verstappen dopo l’uscita della safety car. È la fotocopia degli incidenti a Monza e a Le Castellet al via, è il sintomo della profonda inquietudine di un quattro volte campione del mondo confuso e in crisi di fiducia. Il tedesco ha sprecato una marea di punti (gravissimo il testacoda a Hockenheim mentre era in testa) quando la Rossa era la macchina migliore, ma è chiaro che anche lui,come tutti a Maranello, abbia risentito del clima agitato. C’è un immagine che fotografa la brusca caduta del Cavallino: il nervosismo di Seb al sabato di Monza quando gli comunicano che Kimi (licenziato poche ore prima) ha fatto la pole. È il presentimento di guai in arrivo, e puntualmente arrivano nei primi metri della corsa vanificando una prima fila espugnata dopo 18 anni. Di lì in poi è franato tutto in un amen, per la Mercedes e il suo capitano britannico è stato uno scherzo disarmare un avversario già piuttosto fiacca.
Tutto ha origine nella tragedia di Sergio Marchionne. L’ex presidente era il custode degli equilibri interni, aveva disegnato una catena di comando «orizzontale» per evitare una struttura gerarchica «troppo ingessata», ma alla fine era lui a prendere le decisioni più importanti. E a parlare per tutti, soprattutto nelle riunioni «politiche» con i vertici della F1 dove faceva valere il suo peso.
Quando Marchionne è venuto a mancare improvvisamente, il meccanismo per un po’ ha retto (risale a fine agosto, a Spa, l’ultimo successo di Vettel) poi è imploso. Al di là delle smentite di rito, all’interno della Gestione Sportiva si sono create due fazioni: una fa capo al team principal Maurizio Arrivabene, l’altra al direttore tecnico Mattia Binotto, ingegnere reggiano molto ascoltato da Marchionne. Si dice che i rapporti fra i due siano ai minimi storici, che il barometro segni bufera. Lo dimostrano le frecciate sugli errori strategici e sulle carenze tecniche della monoposto, parole con le quali il team principal ha voluto delimitare una linea di confine fra l’area tecnica e quella gestionale. I problemi non sono mancati nemmeno sul fronte degli aggiornamenti: da Singapore c’è stata un’involuzione. Se la Mercedes è cresciuta moltissimo, la Ferrari è rimasta al palo o almeno non ha tenuto il passo della concorrenza. Ieri però a Suzuka andava bene, nonostante l’incidente di Seb.
Che si ritrovi l’armonia o che la «guerra di potere» peggiori è da vedere. Arrivabene conosce bene il nuovo a.d. Louis Camilleri(suo ex capo alla Philip Morris) ma non per questo pare godere di fiducia illimitata. Mentre il presidente e primo azionista della Ferrari, John Elkann, per ora resta in silenzio. Fino a quando?
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