“Non ho avuto un giro perfetto all’inizio della sessione, poi ci siamo fidati troppo. Invece di uscire siamo rimasti ai box pensando che il tempo fosse sufficiente per entrare nei primi 15 ma abbiamo visto che non è stato così. Me la prendo con tutti, con me stesso, con il mio ingegnere e con tutti quelli che lavorano al box!”. Ecco il commento di un pilota deluso, ma non è Charles Leclerc, bensì Felipe Massa al termione le qualifiche del Gran Premio di Malesia di dieci anni fa.
Il copione fu lo stesso, sedicesimo tempo, fuori dalla Q1 e tanto disappunto. Questo per sottolineare che non è certo la prima volta che accadono questi episodi: tanto per rimanere nel box ‘rosso’, cinque anni fa Kimi Raikkonen fu lasciato ai box dell’Hungaroring con la certezza (rivelatasi poi errata) che il tempo ottenuto fosse sufficiente a passare il taglio della Q1, ma la realtà fu un’altra.
Ma perché una squadra (e/o un pilota) decidono di restare ai box azzardando di compromettere un weekend quando basterebbe tornare in pista per azzerare il rischio? La risposta in questo caso è chiara: la voglia di giocarsela fino in fondo a parità di condizioni con gli avversari.
“Avremmo potuto ovviamente tornare in pista con Charles nel Q1 – ha spiegato Mattia Binotto – ma questo avrebbe comportato perdere un set di gomme soft in Q2 o Q3, e per provare ad ottenere il massimo risultato possibile abbiamo provato a non sfidarli in condizioni di inferiorità sul fronte pneumatici”.
La voglia di puntare in alto a volte può far perdere di vista i rischi che si corrono, ma questa è solo una delle ragioni alla base dell’errore che oggi ha commesso il box (ed il Remote Garage) della Ferrari.
Come ha spiegato lo stesso Binotto, durante le sessioni di qualifica Q1 e Q2 un sistema informatico calcola automaticamente il crono sufficiente a poter dormire sonni tranquilli, se si è sotto quel tempo (e Leclerc oggi lo era) si possono osservare gli avversari che si dannano in pista per raggiungere un traguardo già in cassaforte.
Il problema è che i sistemi informatici vantano una netta superiorità sul piano della velocità di calcolo, ma restano nettamente inferiori su quello dell’intelligenza. Il ‘margine’ che ha spiegato Binotto essere un altro numero (da sommare al crono partorito dal software) che dovrebbe mettere al riparo da imprevisti, non è che una percentuale valutata dagli ingegneri stessi.
Alla fine serve sempre la capacità di pensiero, la valutazione di parametri che oggi a Monaco erano l’incremento repentino della performance della pista e il feeling dei piloti, che nel Principato giro dopo giro limano centimetri di pista e centesimi dal cronometro.
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Per un computer un nome è solo una serie di caratteri alfanumerici, ma se dietro Leclerc (dodicesimo) si leggono i nomi di Vettel, Hulkenberg, Norris e Albon (che qui a Monaco si è visto non essere l’Albon di Barcellona), l’allarme deve scattare, e serve intelligenza umana, non artificiale.
Il problema è che oggi l’attività in pista è stata frammentata ed iper-specializzata al fine di poter raggiungere un’efficienza impensabile solo dieci anni fa.
Chiariamo: mettere ai box un bel direttore sportivo old-style e particolarmente illuminato, oggi forse sarebbe stato un toccasana, ma solitamente non avrebbe scampo contro i software dei remote garage. Ma nel pomeriggio monegasco ha preso forma una variabile imprevista, o mal impostata, e in un contesto frammentato nessuno ha avuto la visione d’insieme.
Paradossalmente è stato Leclerc a mettere in dubbio il verdetto dei software, mentre seduto nell’abitacolo leggeva la classifica nome per nome, attribuendo ad ognuno il corretto peso specifico, ma la squadra lo ha fatto desistere, fidandosi di ciò che solitamente non sbaglia mai.
“Dovrei uscire, penso che siamo un po’ troppo a rischio”, ha detto via-radio Charles ai suoi ingegneri, “No, abbiamo i dati e crediamo che tu sia al sicuro”, è stata la risposta.
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